CINEMAMBIENTE 28 - Jessica Woodworth: "Vi presento il mio cinema"
Ospite del festival
Cinemambiente di Torino è stata anche la regista belga-statunitense
Jessica Woodworth, intervenuta al panel “Distopie Ambientali nell'audiovisivo contemporaneo” e poi in sala per presentare al pubblico una proiezione del film “La quinta stagione”, da lei girato nel 2012 con il marito Peter Brosens. L'abbiamo intervistata.
Questa mattina si è parlato del tuo processo creativo.
I nostri sono sempre film ambiziosi che richiedono lunghi preparativi, quasi come se fossero documentari anche quando non lo sono, ci servono anni e anni di lavoro sul territorio.
All'inizio del mio percorso volevo fare l'attrice di teatro, ma aspettare i ruoli e non avere il mio destino in mano non faceva per me. Allora ho pensato al documentario, che è un mezzo per imparare tantissimo ed è perfetto per la mia curiosità infinita, per imparare lingue e culture diverse.
Ma nel documentario c'è sempre un patto particolare con il proprio soggetto, è quasi impossibile evitare la manipolazione anche se lo fai con integrità. Dopo l'esperienza in Marocco per “The Virgin Diaries” mi sentivo scomoda, era un progetto sulla sessualità, un road movie molto comico che ha esordito all'IDFA ma ho perso l'amicizia con la protagonista e la fiducia della sua famiglia, da entrambi i lati ci siamo sentiti traditi. Poi il mondo è cambiato, c'è stato l'11 settembre, ho conosciuto Peter e abbiamo iniziato a lavorare insieme.
Vi siete conosciuti in Mongolia, tu lavoravi al corto di diploma per Stanford “Urga Song”, nel 1999.
Esatto, e siamo poi tornati per fare “Khadak”. Ci siamo trovati di fronte a una sfida, l'idea iniziale era fare un documentario, doveva essere un lavoro autoriale su socialismo, nomadismo e cinema socialista, ma dopo tre mesi di lavoro molto intenso ci siamo resi conto che non ci interessava.
Quindi siamo passati alla finzione: abbiamo fatto i primi passi su come scrivere una sceneggiatura, come raccogliere fondi (ne abbiamo ottenuto quasi per 2 milioni!) e ci siamo lanciati così, con tante sorprese sul percorso.
“Khadak” è una roba cosmica, con un suo linguaggio specifico, una logica spazio-temporale come quella dello sciamanismo, è costruito in questo modo. Il modo in cui l'abbiamo fatto era impossibile da immaginare e spiegare prima, è stato molto complesso convincere i produttori, è stata una sfida. E' impossibile trasmettere in modo soddisfacente un film in due sole dimensioni, tempo e suono non puoi trasmetterli su carta! Quando inizi a filmare poi la sceneggiatura piano piano non esiste più, è solo un mezzo. Abbiamo ricevuto critiche a Toronto anche violente, ma negli stessi giorni però a Venezia abbiamo vinto il Leone del futuro ed eravamo tutti contenti!
Il film successivo, “Altiplano”, girato nelle Ande, è stata un'altra sfida.
Trovo favoloso non lasciare il pubblico indifferente, lavori così intensamente per 3-4-5 anni, molli famiglia e amici per cosa? Lasciare indifferente chi guarda? No, c'è sempre stata la ricerca della bellezza, di svelare cose inaspettate.
Con il premio del Leone del futuro abbiamo avuto 100,000 dollari ma soprattutto della pellicola Kodak per il film successivo, il premio più bello del mondo: dovevamo farne un altro!
Lui conosceva benissimo quella zona, io sono andata a Cuzco per imparare la lingua, 2 anni, abbiamo lavorato con storici e antropologi, scrittori, la gente delle Ande... Stavamo a 5000 metri di altitudine, a studiare la luce, studiare un archivio di foto di minatori locali che è stato di grande ispirazione. Nel film c'è un valore antropologico molto alto, tutto è molto minuzioso. Sentivamo il rischio di essere visti come gente alla ricerca dell'esotismo, non è vero ma abbiamo cambiato, filmando da noi in Belgio il successivo, “La quinta stagione”.
Un film ancora attualissimo.
Purtroppo sì. La domanda iniziale è semplice: e se una prossima primavera non dovesse arrivare più? Purtroppo è sempre più attuale. Quasi un film dell'orrore, ormai. C'è voluto un anno di lavoro camminando per i campi del Belgio, che non è come nel Monferrato dove vivo adesso in cui puoi andare dappertutto! Abbiamo conosciuto tanta gente, scoperto tante storie sugli animali e non solo che poi sono entrate nel film.
La natura dichiara guerra: questa storia è venuta fuori dalla nostra ricerca. Avevamo un budget molto piccolo ma abbiamo così chiuso la nostra trilogia “inaspettata” sull'ambiente.
A quel punto dovevamo cercare altre sfide facendo cinema e il successivo progetto è stata una commedia.
Anzi, due: “Un re allo sbando” e il suo seguito “The Barefoot emperor”.
La commedia sembra facile ma è la cosa più difficile di tutte! Sono serviti nove mesi di montaggio e in tutto quel tempo i co-produttori dicevano che non facevano ridere, era difficile essere credibili dopo i nostri progetti precedenti.
Ma la commedia non fa ridere finché non è tutta pronta, ogni livello aggiunge qualcosa, il suono con il missaggio finale era fondamentale per il ritmo, il timing di tutto dà la forza alla risata.
Eravamo 95 persone in delegazione a Venezia, mio padre mi suggeriva di andare sotto il palco con un cartello per dire al pubblico quando ridere... non è servito per fortuna, dopo 10 minuti hanno iniziato a ridere e per me è stato commovente!
Il sequel è stato un rischio, è un road movie mockumentary con un linguaggio diverso, non c'è lo zucchero del primo film ma del sale. Volevamo farlo, ambientarlo sull'Isola di Tito, era il momento giusto per prendere in giro i fascisti, le destre... prima del Covid – non tutti se lo ricordano – eravamo totalmente ossessionati da questa tematica, ora sembra meno centrale anche se è sempre più importante, non è più in prima pagina.
L'ultimo film, a regia solo tua, è “Luka”, girato in Italia.
Questo è un progetto iniziato anni prima, molto personale perché adoro il libro di Buzzati, “Il deserto dei tartari”. L'ho realizzato anche grazie al TorinoFilmLab.
Inizialmente era costruito tutto in Armenia, in posti meravigliosi, post-socialisti, abbandonati... era un po' alla Mad Max, ma alla fine per il Covid e la guerra è tutto saltato.
Flaminio Zadra, un amico italiano produttore, mi ha parlato dell'Etna: vado e vedo, da sola, leggo un libro sulle opere incompiute e mi convinco a farlo lì. Che ridere, convincere a darci i permessi per girare alla diga di Bluffi sulle Madonie, che ufficialmente non esiste, è stato molto complesso!
Un testo di culto, quasi sacro, da non toccare, almeno in Italia: c'è il film di Zurlini, vero, che è splendido ma non riesce a interessarmi appieno.
Su questo film per la prima volta ho lavorato con un compositore, Teho Teardo, è stato molto bello confrontarmi con lui. Girarlo è stato complicato, da sempre lo volevo fare in bianco e nero, stando molto sui corpi, sulla loro respirazione, lavorando sui movimenti, sui gesti... trovare la luce giusta sull'Etna poi era un'impresa, ci volevano ore ogni volta.
E ora?
Ora vivo tra il Monferrato in Piemonte, per motivi familiari, e Torino: sto lavorando a un nuovo progetto, “Quando l'erba canta”, una commedia su una ragazza autistica che non parla. Lo sto scrivendo in diversi workshop con adolescenti autistici, giriamo un primo videoclip per trovare un finanziamento nei prossimi giorni. Fanno molto ridere!
Poi vorrei fare una serie legata a Leopoldo II, in particolare su una sua sorella, Charlotte, diventata l'imperatrice del Messico... una storia molto particolare. Perché una serie? Per trovare un pubblico maggiore, il film d'autore è in difficoltà e non li voglio fare solo per me...
10/06/2025, 17:11
Carlo Griseri