Note di regia di "Out There"
Incapace di mettermi a fuoco in un’immagine che riuscisse a descrivere uno scenario sconosciuto (era febbraio 2020, alle porte del primo lockdown), mi sono posto il problema di come osservare, comprendere, eventualmente raccontare, da un’abitazione che si era improvvisamente trasformata in una scatola chiusa, ciò che stava accadendo, adottando un punto di vista poco esplorato: quello di bambini e adolescenti. Con i pochi mezzi a mia disposizione, ho aperto dei varchi verso l’esterno e acceso una fotocamera all’interno del mio appartamento, che occupavo da solo, con l’unica idea di connettere altre abitazioni/scatola, contenute in paesi (scatola) poco lontani dal mio, allargando il raggio fino a raggiungere una megalopoli indiana, Mumbai, anch’essa delimitata da confini invalicabili. Registrando ogni conversazione nata spontaneamente, ho cercato di fermare gli sguardi dei miei studenti e dei miei nipoti, angosciati e interrogativi sull’emergenza sanitaria, le loro voci talvolta mostruosamente modulate dal mondo dell’informazione di massa; e poi la voce di un amico missionario di Mumbai che cerca nelle stazioni, mai così spettrali, tracce di bambini, mentre porta cibo a persone che sembrano fantasmi. Mi è sembrato naturale filmare, come un reportage a distanza, quasi un’istantanea, che era poi un collage di tante istantanee, videochiamata dopo videochiamata, evitando filosofie e programmaticità, utilizzando linguaggi diversi, infischiandomene della sporcizia dei pixel, delle distorsioni dei suoni o della mancanza di un DOP. Mi piaceva anche l’idea di costruire in solitudine questo racconto in emergenza, senza sceneggiare e cercare picchi emotivi, senza commenti musicali extradiegetici: solo volti, voci, la mia presenza in casa, in penombra, perlopiù fuori fuoco, a legare la corale di voci. È un racconto che si è fatto mentre ascoltavo e montavo, un racconto anche su come si sviluppava il racconto (ma non era previsto). Eppure tutto il materiale girato e premontato, circa 180 ore, è rimasto a decantare per più di tre anni, messo in pausa, quasi respingente era l’idea di dargli una forma. Troppe immagini avevano descritto il primo lockdown, fino alla nausea. Il mio NON volevo fosse un lavoro sul lockdown, ma un film che, con il pretesto del lockdown, potesse raccontare qualcosa dell’infanzia, della fragilità dei bambini e della loro capacità di riparare e costruire ripari, quando qualcosa si lacera. Sono dovute passare tre estati per tornare a ripensare Out There in questa chiave e dargli un aspetto finito. Adesso, dopo cinque anni, sembra la testimonianza ritrovata di un periodo remoto.
Alessandro Leone