Note di regia di "Per Te"
Appena ho letto il libro “Un tempo piccolo” ho deciso che, al contrario di come si fa abitualmente, non avrei voluto incontrare i veri protagonisti di quella vicenda. Perché a volte è più giusto modificare i fatti in modo che assomiglino più alla verità che alla realtà di una storia. E io sentivo che c’era una verità, nella storia della famiglia Piccoli, che travalicava la semplice realtà delle loro vite, e ci riguardava tutti: non c’è bisogno di una diagnosi per aver paura di dimenticare. E poi obbligava me, sempre troppo distratto dal futuro per soffermarmi sui ricordi, a guardarmi indietro e a fondere la mia memoria alla loro: la prima volta che mio padre mi ha fatto vedere “Rocky” insieme alla neve che imbianca la chiesa nel giorno del loro matrimonio, il tragicomico funerale di mia madre insieme alla battuta sulle caviglie detta veramente da Paolo il giorno del primo appuntamento con la sua futura moglie, e via così.
E poi il tono: in questo film la diagnosi doveva essere raccontata come un tragico scherzo, una dichiarazione d’intenti, nostra e della vita (che mescola tragedia e commedia nella stessa misura e, nelle sue vette più stupefacenti, nello stesso momento). Perché “Per te” racconta anche questo: due approcci diversi alla tragedia. Il primo, più leggero, di chi vive la commedia come modo per esorcizzare il dolore. L’altro, più concreto e pragmatico, ricorda che la risata è una medicina ma non può essere un’eterna via di fuga, e che a un certo punto le cose vanno attraversate, soprattutto se hai la responsabilità di avere accanto persone che ti vogliono bene.
Paolo e Michela nel film incarnano questi due approcci e durante l’arco della storia ognuno, credo, finisce per imparare qualcosa dall’altro. Di più, credo sia il film stesso a chiedersi: è giusto trattare un argomento così terribile provando ad usare toni più leggeri? In quest’epoca segnata da un perenne senso d’impotenza di fronte all’orrore che stiamo vivendo, ha ancora senso la commedia o è solo una sterile via di fuga? Io, che ho sempre provato a trattare temi seri in questo modo, negli ultimi tempi me lo chiedo sempre più spesso.
Sapevo che questo non sarebbe stato un film sulla malattia, ma sulla memoria e i suoi meccanismi imperscrutabili, sorprendenti. Il film stesso è intriso di memoria, dialoga col passato: le fotografie, le scelte musicali, il muto. La tragedia della vita raccontata come le comiche degli albori del cinema, dove tutto era tragicommedia: il pericolo, la violenza, il rischio di morire ad ogni fotogramma. Una cosa però mi aveva attratto particolarmente rispetto al vero protagonista.
Paolo, lo racconta Michela, era un marito e padre come tanti, con le sue disattenzioni e i suoi errori, la sua semplicità e i suoi egoismi, non la didascalica vittima senza macchia e senza paura che spesso si usa per raccontare storie come questa.
Prima che arrivi la sua condanna, Paolo si sente invincibile. È il ritratto della salute, ha un discutibile doppio taglio fuori tempo massimo, un orecchino, arrotonda - come il vero protagonista della storia - facendo il buttafuori di una discoteca più per lasciarsi una possibilità di distrazione nella vita notturna che per semplice bisogno economico.
È un gigante d’argilla che a un certo punto della vita si ritrova a dire due parole che, per lui e non solo, sono un tabù inavvicinabile. Ho paura. Fin da piccolo ti insegnano che non vanno mai pronunciate, se sei un maschio. Mai. Come le coppie che aspettano di vedere in faccia il neonato per decidere il nome, dopo aver visto una prima copia del film abbiamo deciso che non poteva che chiamarsi “Per te”. Altre due parole.
Queste però implicano un contatto, una dedica, una cura. Ne abbiamo così bisogno, in un’epoca in cui ci illudiamo di essere iperconnessi, ma in realtà non siamo mai stati più soli di così. Semplici come la storia di Paolo, Michela, Mattia e il fratello più piccolo Andrea. Una storia che non ha riempito le prime pagine dei giornali.
Ma, come scriveva Mattia Torre, “i veri eroi oggi sono proprio gli invisibili e silenziosi, sono quelli che si prendono cura degli altri, in una società dove tendenzialmente degli altri non frega più niente a nessuno”.
Alessandro Aronadio